La domanda probabilmente tradisce un pochino di incertezze.
Proviamo dunque a mettere ordine.
Probabilmente ci si intende riferire all’art. 164 bis disp. att. c.p.c. (introdotto dall'art. 2, comma 4 novies, lett. b), d.l. n. 14.3.2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla l. 14.5.2005, n. 80).
Con questa norma il legislatore ha espressamente riconosciuto la possibilità di una “chiusura anticipata del processo esecutivo”, prevedendo che quando risulta che non è più possibile conseguire un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori, anche tenuto conto dei costi necessari per la prosecuzione della procedura, delle probabilità di liquidazione del bene e del presumibile valore di realizzo, è disposta la chiusura anticipata del processo esecutivo, così ponendo rimedio ad un atteggiamento assai rigoroso (ma del tutto condivisibile, de iure condito) della Corte di Cassazione, secondo la quale il principio della tassatività delle ipotesi di estinzione del processo esecutivo rendeva illegittimo un provvedimento di c.d. estinzione atipica fondato sulla improseguibilità per “stallo” della procedura di vendita forzata e, quindi, sulla inutilità o non economicità sopravvenuta del processo esecutivo (Cass. civ., 19 dicembre 2006, n. 27148).
Dalla relazione relativa al disegno di legge di conversione del d.l. 132/2014, si legge chiaramente che la norma è stata coniata allo scopo di evitare "che vadano avanti (con probabili pregiudizi erariali anche a seguito di azioni risarcitorie per danno da irragionevole durata del processo) procedimenti di esecuzione forzata pregiudizievoli per il debitore ma manifestamente non idonei a produrre il soddisfacimento degli interessi dei creditori in quanto generatori di costi processuali più elevati del concreto valore di realizzo degli asset patrimoniali pignorati", aggiungendo che l’ordinanza di chiusura anticipata per infruttuosità sarà impugnabile nelle forme dell’opposizione agli atti esecutivi.
Da queste indicazioni è stata ricavata da taluna dottrina la condivisibile affermazione per cui essa non è (come pure altri hanno ritenuto) strumento di contemperamento tra l'interesse al soddisfacimento dei creditori e l’interesse del debitore a non vedere “svenduto”, bensì mezzo di tutela di un interesse, proprio dell’amministrazione della giustizia, "ad evitare che proseguano sine die procedure esecutive inidonee a consentire il soddisfacimento degli interessi dei creditori, con inutile dispendio di risorse".
Nel valutare questa eventualità dovrà tenersi conto di una molteplicità di elementi:
- l’importo e la natura dei crediti, considerati sia complessivamente che singolarmente;
- l’importo delle spese di giustizia sostenute e prevedibilmente da sostenere a norma degli artt. 2755 o 2770 c.c., specificando, in particolare, i costi medi sostenuti per i tentativi di vendita già espletati;
- le ragioni che hanno ostacolato l’esitazione dei beni staggìti (ad es. mancata emissione dell’ordine di liberazione, necessità di regolarizzazioni edilizie e urbanistiche, necessità di interventi di manutenzione), specificando se sussistano probabilità di liquidazione del bene, tenuto anche conto di eventuali contatti intrattenuti con interessati all’acquisto;
- il presumibile valore di realizzo del bene pignorato, qualora si dovesse optare per la prosecuzione delle attività di vendita.
Dunque, occorre considerare quale sarebbe il prezzo base del prossimo tentativo di vendita e qual’è il credito vantato dal creditore procedente e dai creditori intervenuti.