La domanda formulata pone il tema della compatibilità dell’istituto dell’assegnazione con la vendita fallimentare.
A norma dell’art. 588 “ogni creditore”, nel termine di dieci giorni prima della data della vendita, può presentare istanza di assegnazione per il caso in cui la vendita non abbia luogo, versando un prezzo (così l’art. 589 c.p.c.) non inferiore alle spese di esecuzione più l’importo dei crediti aventi diritto di prelazione di grado superiore rispetto a quello dell’offerente. Fermo restanti questi limiti, l’offerente può essere ammesso a versare una somma pari alla differenza tra il prezzo del bene ed il suo credito, considerato in linea capitale (per tale intendendosi, secondo l’opinione più accreditata, il credito indicato nell’atto di precetto, ma non può negarsi che anche gli importi successivamente maturati a titolo di interessi vadano calcolati).
A seguito dell’istanza il giudice, se ne ricorrono le condizioni, demanda al professionista delegato la quantificazione delle spese e la valutazione della esistenza di eventuali crediti aventi diritto ad essere preferiti rispetto a quelli del creditore richiedente; in pratica, si tratterà di elaborare una ipotesi di piano di riparto, andando così ad individuare l’importo che dovrà essere versato. A seguito del versamento del conguaglio nel termine fissato dal Giudice, il delegato provvederà a redigere la bozza del decreto di trasferimento.
La dottrina suole tradizionalmente distinguere due assegnazioni: l’assegnazione vendita e l’assegnazione satisfattiva. La prima si verificherebbe in presenza di una pluralità di creditori ed imporrebbe il versamento del saldo prezzo (del quale il creditore riotterrebbe la restituzione, in tutto o in parte, in occasione della distribuzione del ricavato, al netto delle spese di procedura). Con la seconda si realizzerebbe una sorta di datio in solutum, che imporrebbe al creditore il solo versamento delle spese di procedura che non abbia ancora anticipato ex art. 8 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
Così costruita la cornice di riferimento, occorre chiedersi se l’istituto dell’assegnazione sia compatibile con la liquidazione fallimentare.
La Cassazione in una non recente pronuncia aveva affermato che “Nella procedura fallimentare non è applicabile l'istituto dell'assegnazione dei beni, di cui alla disciplina dell'esecuzione forzata contenuta nel codice di rito, ostandovi - oltre il sistema di liquidazione dell'attivo delineato dalla legge fallimentare, il quale tende alla trasformazione in danaro dei beni del fallito per il successivo riparto tra i creditori - la compiutezza della normativa fallimentare sulle vendite, escludente il ricorso all'analogia, ed il principio della par condicio creditorum, che sarebbe violato dalla preferenza accordata al creditore assegnatario, nonché, per la cosiddetta assegnazione-vendita, la sua incompatibilità con la struttura del fallimento, che per la liquidazione degli immobili del fallito prevede un formalismo più intenso rispetto a quello richiesto dal codice di rito” (n. 5069 del 22 luglio 1983).
Anche la giurisprudenza di merito si era allineata a questa idea, affermando che “Nella procedura fallimentare non è applicabile, in tema di liquidazione dell’attivo, la disciplina ordinaria del codice di rito circa l’assegnazione forzata, giacchè il richiamo alle norme del codice di procedura civile - in quanto compatibili - è circoscritto a quelle concernenti la vendita di beni mobili o immobili” (Trib. Roma, 17 aprile 1996).
Recentemente tuttavia, la giurisprudenza di merito ha convintamente rivisto questi assunti osservando che l’istituto dell’assegnazione non è incompatibile rispetto alla esigenza di massimizzare i profitti della liquidazione dell’attivo e di assicurare la par condicio creditorum, in quanto sotto questo profilo, tra procedura esecutiva individuale e concorsuale non v’è alcuna differenza, nel senso che sia nell’una che nell’altra si deve vendere al prezzo più alto possibile e deve giungersi alla soddisfazione delle ragioni dei creditori (procedente ed intervenuti) nel rispetto dei criteri scolpiti negli artt. 2740 e ss c.c.. Questo esito non è impedito di per sé dalla disciplina dell’assegnazione, poiché se così fosse essa non dovrebbe ammettersi nemmeno nell’esecuzione individuale, ove invece è espressamente prevista e regolamentata.
Se ne deve allora ricavare che la domanda di assegnazione formulata da uno dei creditori concorsuali da un lato, sebbene non prevista, non è strutturalmente e funzionalmente incompatibile con la liquidazione fallimentare; dall’altro, consentendo l’allocazione del cespite in tempi certamente più rapidi della vendita, rispetto a questa meglio presidia il principio della ragionevole durata del processo; non necessariamente contrasta con i principi di pari trattamento dei creditori e di massimo profitto (Trib. Larino 10 novembre 2016). Ovviamente, prosegue la pronuncia, questo non si traduce nella possibilità di mutuare sic et sempliciter la disciplina dell’istituto, siccome tessuta dal codice di procedura civile, nel microcosmo della procedura concorsuale; al contrario, essa potrà essere lì importata solo ove sia stato positivamente verificato, caso per caso, che non si alteri la par condicio creditorum, che l’assegnazione risulti più conveniente (secondo una valutazione da compiersi caso per caso) rispetto all’alternativa della vendita, e che sia assicurato il versamento delle spese prededucibili.